La depressione del guerriero II

Uno degli eventi più drammatici che possano accadere nella vita intellettuale e che può accadere a molti intellettuali, è avere consapevolezza di ciò che sia la cosa giusta per sé, ma non essere perfettamente coerenti con ciò che si sa bene razionalmente. E’ come essere innamorati, consapevoli che quella persona non sia la persona giusta, ma non riuscire a lasciarla perché emotivamente coinvolti. Gli eventi della nostra vita sono costellati da un’oscillante dicotomia di pensiero (ragione) e azione (vita, ontos), forse è proprio questo il problema, i due mondi si combattono e si intrecciano costantemente in una dolorosa performance di contraddizioni e coerenze che fanno parte delle fasi della nostra vita. Le nostre vite, in questo modo, sono il teatro di queste rappresentazioni. Molte volte le risposte che cerchiamo altrove sono custodite dentro di noi, le abbiamo sempre sapute, sono sempre convissute con noi, perché noi siamo l’evoluzione delle nostre stesse domande; è questo, in fondo, il segreto della filosofia. In barba a chi vede questa “disciplina” come una forma di conoscenza che si pone domande astratte e irreali, la vera filosofia è l’esatto contrario; si pone domande sulla vita. La vita, però, è una vertigine sublime e non è detto che noi possiamo essere pronti per “recepire” certe risposte e, di conseguenza, “carpirle”. Per questo la filosofia è un percorso di vita, prima che una disciplina o materia; per questo, essendo un percorso di vita, di tutta la vita, non può essere definita una  professione. Da questa esperienza di vita, però, si possono far derivare delle professioni come il modernissimo o postmoderno consulente filosofico (counselor), ma non è detto che tutti i professionisti di questo mestiere siano filosofi. Del resto non tutti i laureati in filosofia e/o i docenti di filosofia possano considerarsi filosofi. L’impercettibile difficoltà nel fare propria questa “disciplina”  fa comprendere che non è una questione burocratica, bensì essa sfocia in una disposizione ontologica quasi “religiosa”. La filosofia è nell’essere dell’uomo, di un uomo con le sue contraddizioni, le sue dicotomie tra il sapere cosa è giusto e ciò che si fa veramente.

<<Nessuno può trarre dalle cose, compreso i libri, più di quanto già non sappia. Per ciò di cui non si ha esperienza, non si hanno orecchie>>.

A.    Schopenhauer

Dentro di noi abbiamo le risposte, sappiamo come guarire, sappiamo come superare, forse, l’ostacolo maggiore, noi stessi: le risposte sono nella libreria della nostra vita, tra i libri letti e quelli che ci siamo ripromessi di leggere.

La risposta al mio problema, alla mia apatia, è conservata nella mia libreria, ma la malattia dello spirito è la privazione dell’energia, di quell’energia che ti permette di allungare il braccio e andare a prendere quello che desideri, iniziare, così, un percorso; il problema è capire, quindi, cosa desideri. C’è forse la paura, non tanto inconscia, di sbagliare strada, soprattutto alla mia età. Mi rendo conto che è meglio sbagliare che rimanere fermi; così insegnano a coloro che vengono addestrati alla sopravvivenza nei contesti insidiosi come la natura selvaggia: bisogna sempre muoversi anche se si sta sbagliando strada, e mai rimanere fermi nello stesso punto. La questione è trovare quell’energia minima sufficiente (quelle motivazioni) per spingerti a spostarti in una direzione piuttosto che in un’altra. Ecco, la depressione del guerriero!

Al ritorno dalla Valle degli Elfi …in attesa del treno (le stragi e le guerre)

http://www.vitobarone.it/altamura/altastor.htm (qui il sito da dove è tratta l’immagine)

Nella mia lunga attesa, al ritorno dalla valle degli elfi, noto, all’interno della sala d’aspetto, la lapide in memoria delle << vittime del terrorismo fascista >> del 2 agosto 1980. Per terra c’è una specie di transenna che lascia spazio ad una parte del pavimento che sembra appositamente ristrutturato, lascia l’idea di una voragine, al suo centro vi è deposta una rosa che mi dà una profonda malinconia mista a tristezza per le vittime elencate sulla lapide, vittime, in fondo, delle ideologie idiote, che siano di destra o di sinistra o di qualsiasi altra bandiera: ci sono cose che, sinceramente, non riesco a mandare giù. Non ricordo in quale documentario si ricordava che le guerre, di ogni specie, la più grande violenza effettiva che queste comportano è che annullano le individualità. Gli uomini, i singoli uomini, con le loro storie, con i loro vissuti ed emozioni vengono annullati; nelle guerre queste differenze non contano più, non solo quando provocano la morte, ma anche nel dolore che lasciano ai sopravvissuti. In fondo ci si sforza di ricordare collettivamente nelle commemorazioni, ma risulta sempre l’atro che non ci appartiene come essere che ci tocca, come individualità.

Le stragi, come le guerre, sono la più grande e la più violenta forma di omologazione!

Bologna 17 agosto 2008  h 19:50

Al ritorno dalla valle degli Elfi

Vi chiedo di non rendere questo post fonte di scandalo per voi, sia per un tratto che ho scritto sia per come è stato scritto tutto il post. Raccontando questa avventura elfica ho deciso che sarebbe uscita la parte più vera di me, perchè, semplicemente, certe esperienze come questa sono incisive per la personalità e mettono a nudo certi modi di essere più autentici contro formali ipocrisie. Questa esperienza, come mi ricordava sempre Attilio, è come uno specchio, ti mette a nudo e ti dà la possibilità di guardarti dentro, effettvamente spetta poi a noi su come, quanto e quando far fruttare la stessa. Nel tempo, ovviamente, certi momenti dell’esperienza elfica, e il racconto di esperienze che sto vivendo attualemente, mi ritorneranno in mente durante la vita, è più che naturale, la memoria funziona per rievocazione e somiglianze e certe cose, apparentemente lontane, possono far rivivere e approfondire quel che si è già vissuto. Amici mi hanno detto che non ho raccontato le cose più belle di questa esperienza, ma non posso o non riesco a raccontare quel che le emozioni provano, quello che le sensazioni risvegliano. Vi dico solo, amici miei: non abbiate paura del nuovo, vivete!

Vi scrivo adesso dopo un bel po’ di tempo. Sono al ritorno dalla valle degli Elfi nella sala di attesa della stazione di Bologna, ho lo zaino molto pesante e, per come sono conciata, sono d’aspetto pari al barbone che mi è seduto di fronte; ho il treno espresso diretto per Bari alle 23:15 e adesso invece sono ancora le 18:20. Un caffè e un cornetto dal nome nutelloso mi hanno fatto passare un’oretta qui in stazione, per il resto è ancora da vedere, deve ancora arrivare. Posso dirvi che sono distrutta, ma piena e felice per questa esperienza. Non nascondo la malinconia che provo, l’aver lasciato gli amici del villaggio Aldaia, non ho avuto, purtroppo, la possibilità di salutare tutti, alcuni mancavano quando io e Attilio siamo dovuti scendere a Piccolo Burrone per la festa della luna. E’ un momento difficile per me adesso, tra la stanchezza, la sporcizia che ho addosso e il dolore addominale che mi è venuto, sarà stato il brusco sbalzo alimentare in quanto, nell’ecovillaggio, ho mangiato prevalentemente alimenti autoprodotti. Adesso so solo che vedo le cose in modo diverso, in un’altra occasione, forse, mi sarei seduta lontana dal barbone come hanno fatto tutti i presenti nella sala d’attesa della stazione, invece, istintivamente, senza riflettere, mi è venuto di sedermi esattamente di fronte al barbone (non accanto, ho l’impressione di disturbarlo); lo sento vicino a me, lo vedo come uno di quei viandanti che il villaggio elfico ospitava, anche solo per una notte.

Piccola pausa: scarica di dissenteria… forse sbalzo d’aria (condizionatore nella sala d’attesa), o di alimentazione, o di visione di vita, non lo so fate voi, una ragione deve pur esserci.

Dunque, dicevo… quel barbone è quel genere di persona che passava dall’ecovillaggio Aldaia e si trovava a raccontare la sua storia, la sua vita, raccontare anche storie che vanno dal divertenti alle assurde, insomma uno dei personaggi di una sera che concedevano un pezzo della loro vita narrata. Adesso mi sento più vicina a loro , ai viandanti stanchi , mi sento anch’io un po’ senza tetto, un po’ straniera in questa triste frenesia dei viaggiatori dai vestiti comodi, ma sempre belli.

Quella casa aperta al mondo, quella comunità che accoglie il nuovo con ovvia naturalezza… all’improvviso ricordo quando abbiamo fatto il pane, il pane elfico dal grande forno a legna, tutto questo lo ricordo mentre due ragazzi americani seduti di fronte, ma di spalle a me (posizione dovuta dal nuovo posto derivato dalla pausa) che, conversando, bivaccano mangiando cibo del McDonald.

Ciò che mi è intorno lo sento così lontano da me, così distante, al punto da sentire me stessa così sporca e imbruttita dalla stanchezza.

Bologna 17 agosto 2008

Dire-fare le cose “sporche” pubblicamente: rutti e scoregge liberi, genitali senza vergogna (PRIMA PARTE)

Il pudore è la più grande cazzata che si sia mai istituita nella storia delle abitudini culturali, particolarmente, le abitudini culturali dell’Occidente. Dagli Elfi il pudore, inteso come copertura delle zone genitali e/o dei seni, praticamente, non esiste. Con questo non intendo dire che sono degli sciagurati, bensì sono semplicemente svergognati, nel senso letterale del termine, ovvero non hanno il senso della vergogna. Nella vergogna c’è, intrinsecamente, un senso di colpa, non voglio però entrare nel merito della questione metafisica del senso di colpa, ma evidenziare come questo sia stato arbitrariamente strumentalizzato al punto da essere stato il ricatto intrinseco rivolto verso le coscienze. Avere il controllo sulle coscienze vuol dire avere potere e questo, storicamente, filosofi-storici come ad esempio M. Foucoult  lo hanno ben dimostrato, ed è ciò su cui i poteri politici ed ecclesiastici hanno fatto leva. Gli Elfi, così conformati alla Natura e non semplicemente rispettosi, non considerano la nudità una vergogna perchè in questo modo ci si vergognerebbe di come opera la Natura; essa ci ha fatti così come siamo e con tutti gli effetti che caratterizzano il nostro modo di essere e non si capirebbe il perchè dovremmo provare vergogna. Il pudore, costituitosi tramite abitudine culturale, ha messo le sue radici dentro di noi al punto da sembrarci assurdo scoprirci nella nosra semplicità o comunque fare cose che normalmente e per educazione non si fanno pubblicamente, ma che comunque tutti facciamo privatamente, qui non mi riferisco solo ad un discorso sessuale, ma anche a quel fare che viene definito da maleducati se lo si fa appunto pubblicamente, intendo quel “darsi delle arie”, in tutti i sensi, a cui alludiamo ironicamente. Vedete, imbarazza anche me scriverne, infatti ho espresso l’idea con giri di parole, ma vi assicuro che correrò subito ai ripari 😉

Leggetevi questo interessante brano tratto dal libro Filosofi a Luci Rosse di Pietro Emanuele:

<< Ma è tollerabile che un filosofo si dia al turpiloquio? Rosenkranz si giustifica portando il precedente di Lessing. Questi considerava il linguaggio casto un’ipocrisia, come quella dei professori di latino che fanno studiare ai ragazzi Ovidio omettendone i brani osceni, che forse loro stessi non capiscono. E Rosenkranz conclude la prefazione della sua Estetica citando un’impertinente quartina di Lessing: “Non scrivo per bambinetti / che tutti fieri vanno a scuola / con in mano quell’Ovidio / che i loro maestri non comprendono“. Era uno stile del tutto inconsueto per un secolo puritano come l’Ottocento. Rosenkranz ne odiava il linguaggio: lo considerava disinfettato col cloro e adatto solo, sono parole sue, a delle vecchie signore. Per lui era assurdo fare della decenza il criterio con cui parlare della natura o dell’arte. Una fisiologia che non dica nulla dell’apparato genitale e delle funzioni sessuali è, per lui, fuorviante, perchè produce una letteratura falsa basata “su florilegi tradizionali scelti in modo unilaterale”. La natura, nota Rosenkranz , non conosce la decenza >>.

CONTINUA…

Cambiare “il mondo” lavando i piatti

Le rivoluzioni si possono fare nei piccoli passi del quotidiano, ogni piccolo cambiamento nella propria vita è un progresso del proprio essere.

Dal primo giorno della mia permanenza nella Valle degli Elfi, la prima regola di cui il mio amico Attilio mi ha informata è che ognuno deve lavare il piatto, o altro, che ha sporcato. Questa sembra una regola sciocca, ma se dovessimo pensare, la mansione che ognuno può assumere sgravando ad un altro l’impegno di lavare i piatti di tutti i commensali permette, appunto, di non far pesare a uno solo il lavoro. E’ una specie di spontanea catena di montaggio. Il lavare altre cose come i tegami ecc. sono lasciati a discrezione personale, praticamente ognuno può decidere liberamente se fare in più anche il tegame sporcato per cucinare, tutto comunque viene lasciato a propria discrezione. La spontaneità della libera scelta, quindi, mette nella condizione di decidere volontariamente di lavare quei tegami in più. Personalmente credo che la soluzione migliore potrebbe essere, forse, oltre al fatto che ognuno si lavi il proprio piatto, ognuno, a turno ciclico, potrebbe lavare solo un tegame che si è dovuto sporcare per cucinare. In altri termini, se si dovessero sporcare ad esempio tre tegami, a turno variabile ognuno, volontariamente, lava uno solo degli utensili sporcati, uno lava un tegame, un altro lava l’altro tegame, un altro ancora lava l’altro tegame ancora; questo per non far gravare la pulizia di tutto gli utensili usati, al di là del proprio piatto, ad uno solo. Sarebbe davvero un buon modo di vivere la commensalità senza poi doversi lavare pile di piatti e tegami che ci ritroviamo alla fine di un pranzo, soprattutto se ci sono stati ospiti. Ora, tutto questo è singolare perchè, prima di tutto, non si concepisce l’ospite come colui/lei che deve essere servito, ma l’ospitato è davvero messo alla pari dell’ospitante, riflettete: se questa non è una forma sincera di vera ospitalità?! Far sentire l’ospite come uno di casa al punto da fargli lavare il suo piatto, semplicemente trattato al pari di tutti, è qui che si gioca l’accorciamento della distanza fra l’ospitato e l’ospitante, l’ospitato, infatti, entra già negli usi del contesto in cui si trova. Tutti, quindi, hanno più o meno lo stesso ruolo in queste piccole cose, o abitudini quotidiane, si crea così l’uguaglianza che non è un violento appiattimento, bensì un equo ruolo sociale nella convivenza comunitaria e, nello specifico caso, nella commensalità. Tutta questa visione, infine, va ben oltre l’idea di turismo e turista, avventore distaccato dei luoghi, consumatore del tempo e degli spazi, bensì la persona diventa parte integrante del contesto, si adegua, ma porta con sè comunque il suo vissuto che arricchisce lo stesso luogo. L’Io si fa custode e fonte di arricchimento di quell’esperienza.

Ripeto qui quello che ho scritto nel post precedente, in questo modo si vive il da farsi in forma spontanea, proprio perchè ci si sente volontariamente, per un senso di piacere, utili alla comunità. La regoletta elfica, quella che ognuno si lava il proprio piatto, credo che abbia in sè un grande valore, ovvero l’indicare che nessuno è il servo di nessuno; è un piccolo gesto quotidiano che entra a far parte delle abitudini culturali degli individui, per questo ho iniziato il post con la consapevolezza che: le rivoluzioni si possono fare nei piccoli passi del quotidiano…! E, anche per questo, ad oggi, compio un piccolo sforzo per dare seguito a questa semplice abitudine nella mia casa, di modo che possa ricordarmi e mettere in pratica che nessuno, ovunque, sia il servo di nessuno.

cellula.indipendente@gmail.com

Essere nel fare senza essere schiavi del “dover essere”: gli elfi sono liberi di essere

Sono trascorsi tre giorni dal mio rientro e se devo essere sincera mi è presa una grossa malinconia mista a nostalgia, dovrei pensare alla tesi da finire, a quello che vorrei fare dopo la laurea e invece sono qui a scrivervi e già a meditare un’altra partenza per le montagne pistoiesi fra gli amici elfi (mi sono persino comprata un altro zaino più leggero di quello che ho). So già che quando ritornerò, se ritornerò, non sarà più lo stesso, perchè tutto cambia, cambio io, il modo di vivere e vedere le cose, saranno cambiati loro, insomma, come ogni cosa della natura, qualcosa si sarà trasformato. Meditare sul fatto che non penso al mio post-laurea, mi ha fatto tornare in mente il confronto che ho avuto con alcuni ospiti dell’Aldaia. Questi mi hanno ricordato che, nel mondo comune, il modo di vivere la conoscenza immediata è basato sul fare, mi spiego meglio: intendo dire che la prima cosa che si chiede dopo il nome, a una persona, è cosa fa questa nella vita, il fare è culturalmente il centro nevralgico della nostra società. Dagli elfi ho notato che nessuno mi ha mai chiesto cosa facevo nella vita, semplicemente, dopo ho capito che loro non concepiscono la persona per quello che fa in senso stretto, ovvero puramente dal punto di vista dell’occupazione, alcuni sociologi lo definirebbero dal punto di vista dello status sociale, ma semplicemente per quello che è, quello che fa una persona è solo una parte, però non primaria. Mi è sembrato che fra gli elfi, per quel tipo di stile di vita, emerge la componente del fare in senso più totale, non strettamente inteso verso un mestiere che si svolge. Infatti, io stessa in quel contesto non vedevo ognuno di loro per il ruolo che svolgevano nella comunità, anche perchè il ruolo è abbastanza versatile, ma li vedevo, e adesso li ricordo, con le caratteristiche del loro modo di essere, di porsi: è, quindi, tutta la persona che si presenta a livello socio-interpersonale, la singola persona non viene ridotta al suo lavoro e, di conseguenza, non è nemmeno qualificabile ad uno status. La prima persona che mi ha chiesto cosa facevo nella vita, infatti, era un ospite come me, ma gli elfi non me l’hanno mai chiesto, solo sentendomi parlare, in altre conversazioni, credo abbiano potuto capire cosa facevo nella vita. L’impegnarsi in attività per la sopravvivenza sembra non sia un prestigio particolare, ma semplicemente un giusto darsi da fare, il resto del proprio modo di essere è espresso per quello che è, ma soprattutto è espresso senza frenesia, senza doversi dare da fare per far vedere che si è utili; il fare elfico è invece un fare naturale, spontaneo, un fare dove si percepisce la volontà piacevole di dare una mano alla comunità per il solo fatto che fa piacere aiutare il gruppo verso cui si ha stima e simpatia. Questo è quello che ho sentito, un fare senza alienazione dall’idea di “dover fare“, ma un fare che è donazione spontanea nella collaborazione e nel piacere della condivisione.

Dopo tre giorni, tornata a Bari, sono uscita di casa, avevo come il rifiuto della “civiltà” di fuori e ho ancora difficoltà a riprendere i contatti con alcuni amici, il web è l’unico momento di socializzazione che adesso mi sto concedendo.