Ecovillaggi e stile di vita alternativo

Dopo tanto tempo, finalmente, ho deciso di dedicarmi all’argomento che forse, in questo blog, da quando l’ho aperto, ha appassionato maggiormente gli utenti: la valle degli Elfi e la vita nelle comuni, gli ecovillaggi, al punto da rendere i post dedicati all’esperienza nella valle degli Elfi, vissuta nel 2008, tra i più letti.

Senza perdermi in chiacchiere, non commenterò il perché questo stile di vita alternativo stia suscitando tanto interesse, soprattutto in questo periodo storico, non credo ci voglia molto a capirlo. Imparare a saper vivere con poco, a saper vivere con gli altri e a saper condividere, sembra una cosa facile (al di là dei racconti entusiastici), ma la vita comunitaria ha le sue difficoltà e le sue regole e spesso, per noi della città, abituati a vivere nei nostri spazi intoccabili, uno stile di vita davvero alternativo può risultare difficoltoso se non impossibile. Però (c’è sempre un però), credo che, se si sia davvero convinti di certe scelte e ci si alleni ad accogliere nella propria vita, nel proprio Io, esperienze rivoluzionarie e si abbia una voglia vera di imparare cose nuove, diverse da quelle a cui siamo abituati, la vita nelle comuni non risulti così assurda e impossibile. Continua a leggere

Eluana Englaro deve vivere (anche se purtroppo la faranno morire)

In questi due giorni dall’ultimo articolo scritto, non ho potuto fare a meno di riflettere ulteriormente del caso Eluana Englaro. Ho sostenuto, infatti, che il vero cristiano non ha un attaccamento alla vita terrena, questo lo confermo ancora, ma riguardo al delicato scarto fra la morte causata e la morte personalmente decisa da sè (caso Welbi), credo di aver fatto un errore. Lo scarto è fondamentale, ma soprattutto è delicatamente importante, per la questione, comprendere se sia giusto che siamo noi a dover decidere e disporre della vita di un altro: io credo di no, per tante ragioni. Chi, a favore della morte di Eluana, considera il testamento biologico, come il padre, credo che tale testamento non faccia testo. Ora, la ragione di ciò è nel fatto che noi quando siamo ancora nelle nostre piene facoltà non solo decisionali, ma anche sensorio-motorie, è normale che l’idea dell’immobilità, della non vitalità, ci è assolutamente impensabile: ci fa orrore. Ma lo stato vegetativo è comunque uno stato vitale, se non si considera questo vuol dire che non si ritiene vivente anche la vita di una pianta qualsiasi. La vegetatività non è un buon motivo per considerare, chi è in quello stato, non vivente, ma altre ragioni, più tecnico-scientifiche, mi fanno sostenere la non giustezza della morte provocata ad Eluana Englaro. Chi ci fa crede che in quello stato la coscienza sia  inesistente? Dal punto di vista di alcune teorie all’avanguardia con le neuroscienze, Eluana starebbe come in un continuo stato di sonno, come se fosse addormentata. Quando noi dormiamo possiamo continuare a percepire sensazioni esterne, come il dolore provocato da una nostra posizione scorretta, anche di tipo uditive: questo è ciò che la scienza attuale e l’esperienza ci dicono. Lo stato di assenza locomotoria del corpo non implica necessariamente, quindi, l’assenza delle percezioni. Eluana, lo ripetiamo, è come se stesse dormendo. L’elettroencefalogramma le riconosce attività vitale, il corpo di Eluana potrebbe addirittura permetterle di diventare madre. Almodovar trasse una parte di un suo film su questa possibilità. Voglio chiarire che quello che ho scritto nel post precedente, lo confermo:

Se mi si dovesse controbattere sul fatto che è Dio a disporre della vita e della morte, per contro sosterrei, come Hume, che anche la morte causata è parte della possibilità consapevole di Dio che registra un evento.

Se Eluana Englaro dovessero lasciarla morire (come sta già accadendo), non verrebbe perso nulla di lei, ma noi, da questa parte, non abbiamo quel diritto di decidere del suo stato da un punto di vista, come il nostro, che è quello puramente di vivente in attività, completamente diverso dal suo, perchè il nostro pone la coscienza in una condizione altra dove l’assetto di sistema-organizzazione è di un altro tipo. Qui si consuma l’errore, in primis, dell’opinione pubblica, condizionata da una disinformazione dovuta dall’incompetenza tecnica dei giornalisti, ma soprattutto, tramite l’errore più grande commesso dal padre di Eluana, si mette parola in una questione bioeticamente delicata. Il padre di Eluana non avrebbe mai dovuto dare alla magistratura il compito di procedere e decidere per qualcosa di cui non ha competenza tecnica. In mano alla magistratura il caso infatti è diventato di dominio politico e poi, molto probabilmente, è diventato la scusa del governo per cambiare la costituzione a proprio piacimento. Ma adesso non è questo il discorso in questione. Il padre di Eluana, semplicemente e comprensibilemnte, stanco emotivamente della condizione della figlia in quello stato, vissuto dal suo (nostro) punto di vista diverso, non regge più il peso dell’idea di quella condizione. Scrivo idea perchè è lei ad essere in quella condizione e non lui, i soggetti sono chiaramente distinti. Ci chiediamo se sia giusto che la naturale e vitale incapacità (nel senso buono e umano del termine) del padre di Eluana, che non regge più l’idea della figlia che è da anni in quello stato, possa permettere sia a lui, sia ad altri soggetti chiamati in causa, di toglierle i bisogni primari alla figlia per la sopravvivenza? Praticamente Eluana morirebbe di fame e di sete, ma non potrà mai lamentarsi per questo.

Una riflessione di un mio caro amico mi ha ricordato che, anche se noi cristiani crediamo e concepiamo la vita della coscienza, superiore a quella corporea, comunque, per un cristiano, la coscienza passa attraverso la materialità, qualsiasi tipo di materialità sia. Noi, condannando Eluana a morire di stenti, ci considereremmo presuntiosi di sapere che l’unica materilità possibile sia quella dello stato di veglia di un corpo, contraddicendo così la scienza stessa che riconosce lo stato di sonno (con ciò che ne consegue), ma anche tutti i tipi di moralità che la ragione vorrebbe sostenere in modo autoreferenziale. Non credendo nella sopravvivenza della coscienza al corpo, tanto più si vuole condannare una persona a scomparire con la scusa di un’ipotetica sofferenza della persona in questione.

In sostanza, questo caso non avrebbe mai dovuto assumere dominio pubblico e tantomeno politico, è un caso di bioetica: l’errore è stato fatto alla radice, umanamente, dal padre.

Gli elfi: il corno e l’inconscio

Immersa in questa civiltà, tornata alla solita vita fra progetti, studio, problemi; in certi momenti, come flasch, ritornano immagini della mia permanenza elfica, ma ho bisogno di riattualizzare, di prolungare in un mio presente quelle immagini per far si che quel vissuto riviva dentro di me. Adesso ho bisogno di ricordare per vivere, ma ho anche bisogno di vivere per ricordare.

Domenica mattina un suono strano penetra nel sonno prima del risveglio, sono in dormiveglia e un’immagine si presenta nella mente evocata prepotentemente da questo suono esterno alla mia stanza. Il suono del corno, una specie di corno che è presente in tutti villaggi elfici, questo viene suonato sempre prima del pranzo e prima della cena, è un’abitudine elfica che serve anche a richiamare qualche ospite passante nella zona, o altri abitanti di altri villaggi che si trovano nei dintorni così, nel caso volessero, potrebbero unirsi ai commensali del villaggio interessato. A volte capitava di sentire dal villaggio in cui ho alloggiato, attraverso la vallata, il suono del corno di un altro villaggio: era bello, un atto ancestrale e arcaico. Così, dopo i primi giorni della mia permanenza, anch’io mi sono cimentata nel suono del corno. I primi soffi nella bocca del corno sono sempre, per tutti, fallimentari, ma dopo il terzo o il quarto tentativo partiva il suono giusto, cupo e robusto, che si faceva eco nella vallata. E’ il richiamo per i momenti più tipici di socializzazione della vita elfica, il pranzo e la cena, dove spesso si trova l’opportunità di intraprendere lunghe conversazioni con gente che vi alloggia come te o che il giorno dopo non rivedevi più; come nella vita, alcune persone ti accompagnano per un tratto, le perdi strada facendo, se ne vanno o vai via tu, puoi perderle di vista per sempre o puoi anche ritrovarle dopo una lunga lontananza, oppure puoi svegliarti all’improvviso e scoprire che non sei più tu e non sei più quello di prima, ma non è successo all’improvviso, diventi consapevole che stavi già cambiando, lentamente, nei piccoli passi del quotidiano. L’inconscio sa molte più cose della ragione e delle ragioni del buon senso, sente molte più cose delle ragioni del nostro Io assuefatto dai costumi conformisti.

Bari, 7 settembre 2008

Essere nel fare senza essere schiavi del “dover essere”: gli elfi sono liberi di essere

Sono trascorsi tre giorni dal mio rientro e se devo essere sincera mi è presa una grossa malinconia mista a nostalgia, dovrei pensare alla tesi da finire, a quello che vorrei fare dopo la laurea e invece sono qui a scrivervi e già a meditare un’altra partenza per le montagne pistoiesi fra gli amici elfi (mi sono persino comprata un altro zaino più leggero di quello che ho). So già che quando ritornerò, se ritornerò, non sarà più lo stesso, perchè tutto cambia, cambio io, il modo di vivere e vedere le cose, saranno cambiati loro, insomma, come ogni cosa della natura, qualcosa si sarà trasformato. Meditare sul fatto che non penso al mio post-laurea, mi ha fatto tornare in mente il confronto che ho avuto con alcuni ospiti dell’Aldaia. Questi mi hanno ricordato che, nel mondo comune, il modo di vivere la conoscenza immediata è basato sul fare, mi spiego meglio: intendo dire che la prima cosa che si chiede dopo il nome, a una persona, è cosa fa questa nella vita, il fare è culturalmente il centro nevralgico della nostra società. Dagli elfi ho notato che nessuno mi ha mai chiesto cosa facevo nella vita, semplicemente, dopo ho capito che loro non concepiscono la persona per quello che fa in senso stretto, ovvero puramente dal punto di vista dell’occupazione, alcuni sociologi lo definirebbero dal punto di vista dello status sociale, ma semplicemente per quello che è, quello che fa una persona è solo una parte, però non primaria. Mi è sembrato che fra gli elfi, per quel tipo di stile di vita, emerge la componente del fare in senso più totale, non strettamente inteso verso un mestiere che si svolge. Infatti, io stessa in quel contesto non vedevo ognuno di loro per il ruolo che svolgevano nella comunità, anche perchè il ruolo è abbastanza versatile, ma li vedevo, e adesso li ricordo, con le caratteristiche del loro modo di essere, di porsi: è, quindi, tutta la persona che si presenta a livello socio-interpersonale, la singola persona non viene ridotta al suo lavoro e, di conseguenza, non è nemmeno qualificabile ad uno status. La prima persona che mi ha chiesto cosa facevo nella vita, infatti, era un ospite come me, ma gli elfi non me l’hanno mai chiesto, solo sentendomi parlare, in altre conversazioni, credo abbiano potuto capire cosa facevo nella vita. L’impegnarsi in attività per la sopravvivenza sembra non sia un prestigio particolare, ma semplicemente un giusto darsi da fare, il resto del proprio modo di essere è espresso per quello che è, ma soprattutto è espresso senza frenesia, senza doversi dare da fare per far vedere che si è utili; il fare elfico è invece un fare naturale, spontaneo, un fare dove si percepisce la volontà piacevole di dare una mano alla comunità per il solo fatto che fa piacere aiutare il gruppo verso cui si ha stima e simpatia. Questo è quello che ho sentito, un fare senza alienazione dall’idea di “dover fare“, ma un fare che è donazione spontanea nella collaborazione e nel piacere della condivisione.

Dopo tre giorni, tornata a Bari, sono uscita di casa, avevo come il rifiuto della “civiltà” di fuori e ho ancora difficoltà a riprendere i contatti con alcuni amici, il web è l’unico momento di socializzazione che adesso mi sto concedendo.