Ddl Gelmini e l’Università di oggi con i suoi crediti, i suoi programmi e i suoi drammi

Alla vigilia del passaggio al Senato del ddl Gelmini, si temono, in previsione di domani, gli scontri verificatisi il 14 dicembre con l’approvazione alla Camera dello stesso. Le contestazioni, che sono l’esperessione di un chiaro disagio, meritano, quindi, in quanto tali, rispetto e attenzione, quelle stesse contestazioni che ho voluto vivere da vicino da ex studentessa e da potenziale insegnante di domani, (ma vista la situazione sembra che questo domani potrebbe non arrivare mai, è come essere in un limbo). Prendendomi quella distanza, o quel distacco, che serve per riflettere lucidamente riguardo a certe vicende, alla luce di un’esperienza che si fa sempre più crescente, oggi posso dare un’opinione su quella che è l’Università del mio tempo. Ed è con  estremo dispiacere che attesto che la qualità dei programmi universitari è decisamente scadente; con scadente voglio dire insufficiente a dare una conoscenza più o meno completa di una disciplina. Ora, non soltanto con leggi dirette si può smantellare la cultura, ma anche attraverso forme subdole propense a tentare chi lavora nel settore a compiere il proprio lavoro con meno impegno. Quindi, diciamoci le cose come stanno, i nuovi programmi presenti da qualche anno costituiti dai crediti formativi (CFU), sono programmi che possono essere definiti “striminziti”, ma soprattutto la qualità dei testi, ad eccezione di alcuni casi, è davvero improponibile, anche se li propongono lo stesso. La responsabilità qui, però, non è dei docenti che sono costretti a dover fronteggiare il problema di rendere i programmi sempre più brevi con la massima esaustività possibile, bensì di chi ha proposto questi nuovi ordinamenti universitari. Cerchiamo di essere onesti con noi stessi una buona volta, i programmi, i testi, resi sempre più sintetici (diversi manuali, infatti,  assumono sempre più le denominazioni di <lineamenti>, <elementi>, <fondamenti>, addirittura <lineamenti essenziali> ecc., è come bere sempre l’ultima spremitura dell’olio senza mai gustare la prima, l’extravergine), ripropongono quel vecchio manualismo nozionistico che tanto è stato condannato con le dovute ragioni. A questo punto si fanno passi indietro,  si ritorna a quel sapere quasi mnemonico, facciamo, insomma, rivoltare i pedagogisti dalla tomba. Non sembra più, l’università, il luogo dell’approfondimento, o meglio, il luogo che ti dà l’opportunità di fornirti di quelle basi adeguate per approfondire, anche privatamente, determinate tematiche o questioni. L’università sembra quasi non serva più, oltre che per la sua scarsa spendibilità a livello lavorativo, almeno qui in Italia, ma anche per la preparazione che ti fornisce. Devo ammettere però che la qualità rimasta risulta presente dalla preparazione dei docenti che fa, infine, la differenza, in fondo si sa, è sempre consigliabile la frequenza delle lezioni che diventa, adesso, sempre più necessaria. Qualche anno fa dicevasi insegnamento annuale il ciclo di lezioni che, come dice la parola stessa, appunto, durava un anno accademico, adesso invece, nel fallito tentativo di comparare un insegnamento annuale con il corrispettivo dei crediti formativi, invece di costituire l’insegnamento per l’intero anno, improvvisamente ci troviamo lezioni che durano appena tre mesi, anche poco meno. Da un anno di lezioni si è passati a tre mesi, potete immaginare la differenza sia quantitativa, sia qualitativa. Gli studenti, e qui li bacchetto, sono rimasti a guardare. Gli insegnamenti di storia sono stati i primi a risentirne. Un tempo, andare a lezione, significava avere spiegazioni della parte istituzionale, anche oggi avviene, ma con una riduzione di quantità e soprattutto con quella fretta che non dovrebbe implicare lo studio nel momento in cui necessita di un tempo dovuto. Con questi nuovi ordinamenti, poi, ci si laurea prima e questo ovviamente fa comodo, ma non si percepisce, in questo modo, la scarsa qualità della preparazione. Ora, anche i docenti sono stati a guardare, è chiaramente comodo fare lezioni solo di tre mesi invece di impegnarsi per una anno accademico e ciò allo stesso prezzo (stipendio). Insomma, ci hanno tutti marciato quando si è vista la convenienza. E dulcis in fundo! i famigerati crediti formativi (CFU), dove, credo per legge, questi permetterebbero di preparare un esame nel giro di 15 giorni. Ma ditemi un po’, che tipo di preparazione si ha quando si studia una disciplina per solo 15 giorni? per quanto bravo e diligente possa essere uno studente, questo tempo non permetterebbe soprattutto la realizzazione di approfondimenti adeguati, al massimo “approfondimenti superficiali”. Si fa un’insalata di tutto, un po’ di quello, un po’ di questo, un po’ di quell’altro, lavoro, poi, basato da quei manuali scritti in un modo che il sussidiario delle elementari in paragone è la Divina Commedia. Non è un caso che i docenti con un briciolo di buon senso suggeriscono i manuali dei licei come parte istituzionale da studiare, a dimostrazione del fatto che sembri, adesso, si studi meglio alle superiori, non fosse altro perchè si ha più tempo.

Questa è l’università del nostro tempo, un’università stanca e minimale, sempre chiusa in se stessa e sempre baronisticamente costituita. Forse abbiamo bisogno di un’Università moderna, o postmoderna, che non deve significare riduzione dei programmi per velocizzare le lauree, ma che si integri con una società iniziando a dialogare con essa, non solo per preparare lavorativamente le nuove generazioni quando finiscono il percorso universitario, ma anche per formarle, durante quello stesso percorso, in un vissuto che forgi una forma mentis dell’essere dell’io che sta diventando, ed è, cittadino unico del suo paese.